Di fronte alle proposte romane

Possiamo accettare oggi un riconoscimento canonico
da parte della Roma neomodernista?

Studio dottrinale

  Quinta parte


Pubblichiamo lo studio dottrinale approntato dai Cappuccini di Morgon, Francia, sulla controversa questione del riconoscimento canonico della Fraternità San Pio X da parte di Roma.
Il documento è molto articolato e presenta una disamina delle questioni che da qualche anno sono sul tappeto, che hanno prodotto una vera spaccatura all'interno della Fraternità, fino a comportare la fuoruscita o l'allontanamento di diversi sacerdoti. In questo contesto, i Cappuccini di Morgon non condividono il possibile riconoscimento canonico, perseguito da alcuni anni dalla dirigenza della Fraternità, e in questo documento cercano mi mettere in chiaro la loro posizione.

Presentiamo il documento in una nostra traduzione, suddivisa per comodità in più parti, mentre rimandiamo al testo originale diffuso anche in formato pdf.


Tutto lo studio in formato pdf



Prefazione

Nella tormenta e nella confusione attuali noi dobbiamo rimanere fedeli agli autentici principii cattolici e restare radicati in essi. E affinché questi siano realmente la luce che illumina e guida i nostri passi, noi dobbiamo trarre da essi le conseguenze pratiche ed applicarle rigorosamente nella nostra vita di tutti i giorni e nei nostri comportamenti quotidiani.

La coerenza e la non-contraddizione sono la conseguenza logica dell’adesione piena ed intera alla verità.

Come diceva il cardinale Pie, la carità, che è il vincolo della perfezione, dev’essere dettata e regolata dalla verità, ed è in questo spirito di carità che abbiamo voluto scrivere queste pagine.

Soprattutto, questo lavoro è stato realizzato sotto lo sguardo di Dio, perché è a Lui che dovremo rendere conto di tutta la nostra condotta; ma l’abbiamo redatto anche per far conoscere lealmente il fondo del nostro pensiero sulla questione delle proposte romane.

Infatti, nel condividere da molti anni la stessa battaglia con le altre comunità della Tradizione, noi abbiamo avuto a cuore di far conoscere a coloro che ci sono più vicini il modo in cui noi percepiamo la situazione attuale.

In ogni caso, noi speriamo che questo lavoro venga recepito in questo spirito di pace e di comprensione.

Si degni la Madonna, Vergine fedele e Regina della Pace, di mantenere tra noi i legami soprannaturali che ci uniscono, nella verità e nella carità, al suo divino Figlio, Gesù Cristo nostro Re.

Frate Antonio de Fleurance
Guardiano del Convento San Francesco




Questione 2: possiamo accettare un riconoscimento canonico proposto da un’autorità neo-modernista?

La risposta non va da sé. Infatti, per anni Mons. Lefebvre ha considerato possibile un accordo; anzi, intraprese dei passi in questo senso.

Dopo aver definito i termini della problematica (introduzione), porremo tre domande:
- La prima relativa all’atto stesso del riconoscimento, indipendentemente dalle sue conseguenze: Non è un dovere cercare di essere riconosciuti ufficialmente dal Papa (articolo primo)?
- La seconda relativa alle conseguenze che un riconoscimento potrebbe avere sulla nostra fede e prima di tutto l’influenza che eserciterebbe su di noi l’ambiente nel quale ci troveremmo inseriti; questo sarebbe controbilanciato dalle possibilità d’apostolato che ci verrebbero aperte: un riconoscimento canonico non ci aprirebbe un immenso campo di apostolato (articolo secondo)?
- La terza relativa ancora alle conseguenze, ma questa volta in rapporto alle influenze provenienti dalle autorità: Non potremmo ottenere uno statuto che ci protegga (articolo terzo)?
Infine, a titolo di procedura «critica» (78), porremo un’ultima domanda: l’affermazione «Nessun accordo pratico prima di un accordo dottrinale» non è un semplice giudizio prudenziale (articolo quarto)?
Dopo la conclusione, aggiungeremo come addentum l’evoluzione del pensiero di Mons. Lefebvre su questa questione.

Introduzione

Prima di entrare nel vivo dell’argomento, è importante definire i termini della problematica. E prima di tutto una precisazione: di seguito tratteremo di «accordo», di «riconoscimento canonico. Sono la stessa cosa? In cosa si differenziano queste due realtà?


1) Che cos’è un «accordo»?

L’etimologia di questo termine indica un’armonia degli spiriti. Il senso corrente di esso (in questo contesto) è quello di «accomodamento tra coloro che si mettono d’accordo». Il dizionario, per definire l’espressione «d’accordo» dice: «essere d’accordo: avere la stessa opinione, lo stesso parere o la stessa intenzione – agire nello stesso senso, fare causa comune, camminare mano nella mano, essere uniti come un solo uomo».
In altre parole: il termine «accordo» indica una comunione sia nel pensare sia nell’agire (79).

Applichiamo tutto questo alle relazioni fra Roma e noi (80). L’accordo può essere dottrinale o pratico.

Per prima cosa, l’accordo dottrinale. A partire dal Concilio si è aperto un fossato dottrinale fra la gerarchia cattolica e i fedeli che sono rimasti legati alla Tradizione. Dunque, non vi è più accordo, ma divergenza sulle questioni di fede. Da cinquant’anni, la Roma modernista si sforza di ristabilire un accordo che conduca i fedeli della Tradizione verso la dottrina del Vaticano II: può esservi accordo se questi fedeli adottano le nuove dottrine. Quanto a Mons. Lefebvre e ai suoi successori, essi si sono sforzati di ricondurre le autorità romane alla dottrina tradizionale: cosa che detta in altre parole significa che hanno mirato ad un accordo dottrinale nella verità, accordo che suppone la conversione della Roma neo-modernista.

Per seconda cosa: l’accordo può essere pratico, e cioè basato non sulla dottrina, perché le due parti divergono, ma sull’azione; si trova un accomodamento per vivere insieme, ciascuno rimanendo ciò che è.
Ora, l’azione è regolata dal diritto, dunque, un tale accordo è sigillato da una struttura canonica concessa alle comunità della Tradizione.
Questo modus vivendi è possibile senza che tali comunità mutino dottrinalmente? Di fatto, concretamente, questo non è mai accaduto, come è provato dalla storia degli accordi stabiliti da dopo il 1984.
Ma ci toccherà esaminare questo aspetto più a fondo.

Infine, l’accordo può essere ad un tempo sia dottrinale sia pratico. E qui sono da considerare due casi: o le autorità neo-moderniste che propongono uno statuto canonico esigono a fronte di esso l’adesione a dei punti di dottrina derivati dal Concilio; o queste stesse autorità, ritornate alla Tradizione, riconoscono alla Fraternità e alle comunità amiche, dopo averlo negato, lo statuto canonico che esse avevano già (81).

Un accordo presuppone che le due parti «si mettano d’accordo». Se si tratta di un accordo pratico: si cerca un accomodamento, modificando all’occorrenza le condizioni fino a che non si arrivi all’accordo.

Ordinariamente, un accordo si fa tra due eguali, per esempio tra due príncipi, tra due Stati o due società. Più difficile è concepire un accordo fra un datore di lavoro e i suoi dipendenti, o tra un vescovo e i preti della sua diocesi. Ecco perché certuni, nei rapporti tra le comunità tradizionali e la Santa Sede, preferiscono parlare di riconoscimento canonico.

2) Che cos’è un riconoscimento canonico?

a) Il riconoscimento in generale

Il senso corrente del termine «riconoscimento» (nel contesto che ci riguarda) consiste nell’ammettere una cosa dopo averla negata o averne dubitato.
Più precisamente, è l’«azione di riconoscere formalmente, giuridicamente…»; per esempio, il riconoscimento di un governo: col quale uno Stato riconosce la legalità di un governo derivato da una rivoluzione.

b) Natura del riconoscimento canonico

Il riconoscimento canonico è la concessione di una struttura canonica da parte dell’autorità ecclesiastica (82) ad una entità che non la possiede. In realtà, si parla piuttosto di «approvazione» o di «erezione canonica» di un Istituto. Se qui si utilizza il termine «riconoscimento» è in ragione della situazione particolare in cui noi ci troviamo: il Papa riconosce l’esistenza giuridica di comunità che già esistono.

Tuttavia, nello spirito delle autorità romane, queste comunità attualmente non hanno alcuna esistenza giuridica. Per esempio: le dette autorità non riconoscono i voti di questi religiosi come dei voti pubblici (83), ma li riconoscono come voti privati.
In occasione di diversi accordi (a Le Barroux, a Papa Stronsay) si sono fatti professare di nuovo i voti ai membri di queste comunità nelle mani del vescovo del luogo o di un rappresentante della Santa Sede. Di conseguenza, in caso di riconoscimento canonico, bisognerà esaminare da vicino queste circostanze.
Se la Santa Sede, sia con parole, sia con atti, dichiara legale un’opera che fino ad allora ha considerato illegale, l’accettazione di questo fattore implica ipso facto, malgrado le rettifiche a posteriori, l’ammissione che la detta opera era in precedenza illegale; il che significa quindi, implicitamente, negare lo stato di necessità che ha legittimato la nostra resistenza all’auto-demolizione della Chiesa.

c) Conseguenze del riconoscimento canonico

La prima conseguenza è che l’istituto riconosciuto acquista la personalità morale, dunque una certa autonomia nel suo governo interno.
La seconda conseguenza è che questo istituto dipende in maniera più diretta dal vescovo del luogo (84), se si tratta di un istituto diocesano, o dalla Santa Sede se si tratta di un istituto di diritto pontificio. In quest’ultimo caso, l’istituto è sottratto alla vigilanza del vescovo per tutto ciò che riguarda il governo interno.
La ragione di questa vigilanza (del vescovo o di Roma) è che gli istituti conducono i loro membri alla perfezione cristiana necessariamente sotto la direzione della gerarchia della Chiesa.
Questa dipendenza canonica nei confronti delle autorità neo-moderniste, è compatibile con la conservazione della fede e con la sua confessione pubblica?
Questa problematica è uno degli oggetti principali di questa questione 2.

d) Riconoscimento canonico e apostolato

E’ il vescovo del luogo il responsabile di tutti i fedeli del suo territorio. Di conseguenza, tutto l’apostolato dei sacerdoti – compreso quello dei membri di istituti esenti – è regolamentato dal vescovo e si esercita sotto la sua dipendenza e la sua sorveglianza.

E’ per questo che Mons. Lefebvre, nel considerare la regolarizzazione delle opere della Tradizione, prese in considerazione quelle strutture che potessero permettere di continuare l’apostolato presso i fedeli, con una certa indipendenza dai vescovi. Il che suppone delle istituzioni dipendenti direttamente dalla giurisdizione del Papa.
Esaminiamo in particolare il caso della prelatura personale, già presa in considerazione da Mons. Lefebvre e che è ancora oggi all’ordine del giorno.

Il concilio Vaticano II (85) ha inaugurato le prelature personali. Esse sono delle «entità giurisdizionali erette dalla Santa Sede come strumenti nel quadro della pastorale gerarchica della Chiesa, per la realizzazione di attività pastorali o missionarie particolari» (86). Questi compiti pastorali sono rivolti a dei gruppi particolari di persone. Perché le cose vengano fatte in maniera ordinata, le prelature devono intendersi con le Conferenze episcopali, prima dell’erezione, per coordinare il loro lavoro (87).

A capo della prelatura vi è un prelato che ha giurisdizione sui fedeli sui quali si esercitano le particolari attività pastorali. Tuttavia, per poter esercitare il suo apostolato in una diocesi, la prelatura deve aver ottenuto il preventivo consenso dell’Ordinario del luogo (88). La prelatura personale è, dunque, un ausiliario del clero diocesano. I fedeli che godono del suo apostolato sono quindi sottomessi principalmente all’Ordinario del luogo e, in più, al prelato della prelatura personale.
Quanto sopra riguarda le prelature considerate dal Codice del 1983, ma, a onor del vero, la struttura prevista per la Fraternità e le comunità amiche godrebbe, sembra, di una indipendenza quasi completa dai vescovi; in ogni caso, questa indipendenza sarà molto più ampia di quella dell’Opus Dei. Malgrado tutto, essa non può essere totale, poiché il vescovo diocesano, di diritto divino, è il capo del territorio affidato alle sue cure.

Così, il semplice riconoscimento giuridico implica tre possibilità: per il riconoscimento degli istituti vi è una dipendenza dalla Santa Sede, normalmente dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata (benché il Papa sia libero di collegarli ad un’altra Congregazione); per l’erezione della prelatura personale – a seconda del caso – vi è una dipendenza dalla Congregazione per i Vescovi, che comporta comunque una certa intesa con gli Ordinari del luogo; in definitiva, la prelatura dipende dalla Congregazione romana per i vescovi.

e) Riconoscimento unilaterale?

Si tratta di un’espressione che in questi ultimi tempi si sente sovente. Qual è il suo significato? Un riconoscimento può essere bilaterale?

Limitiamoci al caso del riconoscimento canonico: il riconoscimento è l’atto di colui che riconosce. Ora, chi riconosce le comunità tradizionali? La Santa Sede (89). Non siamo noi che riconosciamo quest’ultima e che le conferiamo una struttura canonica. Di conseguenza, un riconoscimento canonico è essenzialmente unilaterale. Allora, perché questo pleonasmo?

Da una parte, questa espressione sembra significare che quest’atto del Papa sarebbe senza «contropartita dottrinale». La struttura canonica proposta non sarebbe accompagnata da una preventiva dichiarazione dottrinale da firmare. Ma in questo caso sarebbe meglio parlare di «riconoscimento canonico senza contropartita dottrinale».
Dall’altra, questa locuzione lascia intendere che le opere della Tradizione saranno normalizzate malgrado loro stesse, non vi entreranno in niente e non potranno rifiutare (90).
Ora, questo è evidentemente falso: è sempre necessario intendersi su un documento, e questo implica necessariamente un’accettazione o un rifiuto da parte delle dette opere (91).

Questo ci porta ad un terzo possibile significato dell’espressione «riconoscimento unilaterale»: che lascerebbe supporre che non vi sia contropartita sul piano pratico; tutto continuerebbe come prima, senza alcun cambiamento, tranne il fatto che noi saremmo ufficialmente riconosciuti. Questo maschera un aspetto capitale: che è l’effettiva sottomissione alle autorità romane insieme all’inevitabile influenza che queste eserciterebbero su di noi.
Infatti, il diritto non è mai «unilaterale», esso regola dei rapporti tra persone (fisiche o morali) in vista del bene comune, dunque i rapporti tra superiori e soggetti. E’ inconcepibile immaginare un soggetto che abbia solo dei diritti e un superiore che abbia solo dei doveri… sarebbe rivoluzionario. Dunque, i soggetti hanno necessariamente dei doveri verso i superiori. Tali che se i superiori accordano qualcosa, e anche molto, i soggetti concedono la loro sottomissione: il diritto, dunque, è necessariamente bilaterale.
Da qui la questione che bisogna esaminare: questa dipendenza non rischia di condurre ad un accordo dottrinale sul Concilio?

f) Riconoscimento di fatto?

Questa espressione indica l’atto del Papa che, vedendo che le discussioni con la Congregazione per la Dottrina della Fede giungono ad uno stallo, passerebbe oltre ogni condizione dottrinale, canonica o liturgica. Sarebbe un riconoscimento per vie di fatto piuttosto che per vie di diritto, legali, canoniche. Il papa si sarebbe già mosso in questo senso (in particolare concedendo la giurisdizione per le confessioni durante l’anno della misericordia.)

Notiamo che quello che viene chiamato «riconoscimento di fatto» ha delle conseguenze giuridiche. Infatti, dichiarare che le confessioni dei sacerdoti della Fraternità sono valide, equivale a dire che sono legali, conformi al diritto, alla legge. Benché il Papa non dica esplicitamente: «Io do la giurisdizione a questi sacerdoti», si tratta di una giurisdizione delegata (92); infatti è lui che ne ha fissato la durata (dapprima restringendola all’anno della misericordia e poi decidendo che sarebbe continuata anche dopo).
Ciò che è stato fatto per le confessioni può essere fatto per altri atti del ministero dei sacerdoti della Tradizione. Si tratta di una sorta di «riconoscimento canonico a pezzi e bocconi».

Ciò che vuole forse indicare questa distinzione tra «riconoscimento di fatto» e «riconoscimento di diritto» è la differenza tra la fase in cui sono riconosciuti come legali alcuni aspetti del nostro ministero e l’altra fase in cui sarebbero riconosciuti tutti gli aspetti della nostra vita (cosa che implica necessariamente uno statuto giuridico, poiché non si può essere aggregati ad una società senza seguirne il diritto). Ed è solo in questa seconda fase che la sottomissione alle autorità romane diverrebbe effettiva.

Questa distinzione tra i due tipi  di riconoscimento, lascia intendere che ci potrebbe essere un riconoscimento totale della nostra legittimità senza la dipendenza dalle attuali autorità romane: il che è impossibile. Dunque sarebbe meglio parlare di «riconoscimento canonico in corso» o di «regolarizzazione canonica in corso» (93) piuttosto che di «riconoscimento di fatto».

g) Riconoscimento canonico e accordo

Così com’è inteso in questo momento, il termine «accordo» indica generalmente un accordo pratico, con o senza dichiarazione dottrinale (il progetto attuale ne comporta una). Il riconoscimento canonico è incluso nell’accordo pratico.


3) La chiarezza delle parole


Ma perché fare tutte queste precisazioni sui vocaboli? Esse sono necessarie se vogliamo essere «figli della luce». Nel suo linguaggio, la Chiesa tiene in modo primario alla chiarezza delle parole. Innanzi tutto nell’espressione dei dogmi (94); ma questo vale per tutto l’insegnamento della Chiesa: dalle encicliche al più piccolo corso di catechismo per bambini.

Al contrario, la Rivoluzione rifugge dalle espressioni chiare.
«Non si è mai stati attenti abbastanza – dice Don Joseph Lémann – in Francia e altrove, a come gli uomini del male siano riusciti ad invadere a poco a poco tutti i settori della società. La loro abilità è stata infernale. Si sono impossessati del linguaggio prima di impossessarsi delle vostre scuole, o cattolici, dei vostri ospedali, dei vostri palazzi di giustizia, delle vostre istituzioni […] L’invasione è incominciata nelle parole, nelle idee, e si è conclusa nelle istituzioni. Era logico. Un profondo pensatore ha fatto questa riflessione, che non sarà mai troppo meditata: “fintanto che un popolo è invaso nel suo territorio, non è vinto; ma se si lascia invadere nella sua lingua, è finito”. La lingua di un popolo […] è il suo bastione supremo, il suo ultimo santuario: e piuttosto che lasciarla profanare, esso deve saperla occultare» (95).
«Ecco perché si rende un servizio alla causa patriottica delle nazioni gridando loro: “Portate prima di tutto la lotta sul linguaggio, chiamando le cose con il loro vero nome, e per questo servitevi di designazioni che illuminano e disingannano le povere popolazioni ingannate”» (96).

Ecco, la Roma moderna ha abbandonato questa chiarezza. E bisognerebbe soprattutto non lasciarci imporre da essa la nebulosità del linguaggio.

Questo è dunque l’obiettivo di questa introduzione: stabilire la chiarezza del linguaggio. Bisogna chiamare gatto il gatto. Se un riconoscimento canonico passa per delle contrattazioni in cui ciascuno apporta degli accomodamenti, questo bisogna chiamarlo «accordo». Per esempio, la regolarizzazione dei sacerdoti di Campos è un accordo. Al momento della firma, Don Rifan diceva: «Non è un accordo, ma un riconoscimento». «Con questo egli lasciava intendere che Roma riconosceva la giustezza della Tradizione. I fedeli erano disorientati e hanno creduto a Don Rifan. Si gridava alla vittoria» (97).

Noi preferiamo lasciare da parte le espressioni: «riconoscimento unilaterale» o «riconoscimento di fatto», e parlare molto semplicemente di «riconoscimento canonico con o senza contropartita dottrinale»: così le cose saranno molto più chiare.

Articolo Primo: non è un dovere cercare di essere riconosciuti ufficialmente dal Papa?

I - Ragioni a favore di una risposta positiva

Sì, sembra che sia un dovere cercare di essere riconosciuti ufficialmente dal Papa.

PRIMA RAGIONE

In effetti, se le autorità romane, e in particolare lo stesso Papa, ci chiamano ad unire i nostri sforzi per ricristianizzare la società, noi possiamo solo gioirne, vigilando di rimanere tali come siamo. Ora, il Papa, giustamente, vede nella Fraternità una forza che può mettere le mani in pasta nella nuova evangelizzazione, reclamata da ogni parte. Egli apprezza che noi andiamo verso le «periferie esistenziali» - e cioè che noi portiamo aiuto alle anime là dove esse si trovano – e questo va nella direzione del suo programma. Infine, egli vede che tutto si affossa, mentre al contrario noi rappresentiamo una forza viva per la Chiesa.
Abbiamo il diritto, allora, di rifiutare un riconoscimento e di conservare tutti questi tesori per noi?

SECONDA RAGIONE

Tra i conservatori noi abbiamo dei simpatizzanti – anche tra i cardinali – di cui certi hanno bisogno del nostro aiuto. Questo potrebbe controbilanciare il peso dei progressisti.

TERZA RAGIONE

Ogni situazione anormale conduce di per sé alla normalizzazione. E’ nella natura stessa delle cose. Bisogna dunque andare in questa direzione e cercare di ristabilirci in una situazione normale.

QUARTA RAGIONE

Negli anni a venire noi avremo bisogno urgente di nuovi vescovi. E’ certo possibile consacrare senza mandato pontificio, in caso d’urgenza, ma se è possibile consacrare dei vescovi col permesso di Roma, tale permesso dev’essere richiesto.

QUINTA RAGIONE

Non è per ecumenismo che il Papa viene verso di noi, ma perché ci ritiene cattolici. Egli dice a chi vuol capire che noi siamo cattolici. Del resto, le discussioni che noi intratteniamo con i nostri interlocutori romani o con quelli mandati dalla Santa Sede, sono delle discussioni tra cattolici. Cosa c’è quindi di più normale che essere riconosciuti ufficialmente come cattolici?

SESTA RAGIONE

Il nostro riconoscimento canonico provocherà un sano trambusto all’interno della Chiesa: il bene verrebbe incoraggiato e i malevoli subirebbero una disfatta.

SETTIMA RAGIONE

D’altronde, giustamente i nostri nemici (modernisti ed altri) si oppongono con forza a questo riconoscimento: è il segno che sarebbe una buona cosa.

OTTAVA RAGIONE

Lo stesso San Pio X ci offre un esempio. Infatti, gli anticlericali, approfittando della disunione dei loro avversari, avevano preso il potere a Venezia. Alle elezioni successive, il cardinale Sarto decise di cambiare la situazione. «Egli getta le basi per una alleanza onorevole - dice il suo biografo – tra i membri più rappresentativi del partito cattolico e quelli del partito moderato, alleanza contrattata sotto il segno della più ampia fiducia» (98). La vittoria fu totale. Così, i papi della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo hanno dato l’esempio della pacificazione con i paesi secolarizzati per potervi reintrodurre l’influenza della Chiesa. E su questa strada del pragmatismo, volgendo le spalle all’isolamento, uno dei pionieri fu San Pio X, più celebre per le sue riforme che per il suo attaccamento ai princípi. Lo stesso nella crisi della Chiesa: dopo il Concilio, la cosa importante era prendere le distanze, come fece Mons. Lefebvre, per dimostrare la nostra riprovazione di certe novità. Oggi il pericolo è l’isolazionismo. Bisogna giungere ad una pacificazione con i moderati, per poter reintrodurre nella Chiesa i princípi della Tradizione; e questo passa necessariamente per una soluzione canonica.

NONA RAGIONE

D’altronde, Mons. Lefebvre ha sempre cercato una soluzione canonica per la Fraternità. Egli ha continuato nei suoi sforzi anche dopo le consacrazioni, benché col suo realismo avesse poca speranza di successo.

DECIMA RAGIONE

Oggi, noi non siamo i soli a criticare le derive. Nella stessa Roma ci sono delle voci che si fanno sentire. Questa libertà che viene loro lasciata è la garanzia di quella che verrà lasciata a noi dopo il riconoscimento canonico.

II - Opinioni in senso contrario

Contro le ragioni precedenti, facciamo notare quanto segue (99):

Il 14 luglio 1987, Mons. Lefebvre diceva al cardinale Ratzinger: «Eminenza, vede, anche se ci accordate un vescovo, anche se ci accordate una certa autonomia nei confronti dei vescovi, anche se si accordate tutta la liturgia del 1962, se ci accordate di continuare con i seminari e la Fraternità, come stiamo facendo adesso, noi non potremmo collaborare, è impossibile, impossibile, perché noi lavoriamo in due direzioni diametralmente opposte:  voi lavorate alla scristianizzazione della società, della persona umana e della Chiesa, e noi lavoriamo alla cristianizzazione. Non ci si può intendere.» (100).

Nel dicembre 1988, Monsignore diceva anche: «Quando mi si pone la domanda di sapere quando vi sarà un accordo con Roma, la mia risposta è semplice: quando Roma reintronizzerà Nostro Signore Gesù Cristo. Noi non possiamo essere d’accordo con coloro che hanno detronizzato Nostro Signore. Il giorno in cui essi riconosceranno di nuovo Nostro Signore Re dei popoli e delle nazioni, non saranno ritornati a noi, ma alla Chiesa cattolica nella quale noi siamo sempre rimasti.» (101).

Infine, nel suo Itinerario spirituale, che è come il suo testamento, egli scrisse: «Finché tale Segretariato [per l’unità dei cristiani] manterrà il falso ecumenismo come suo orientamento e finché le autorità romane ed ecclesiastiche lo approveranno, si può affermare che essi resteranno in rottura aperta ed ufficiale con tutto il passato della Chiesa e con il suo Magistero ufficiale. E’ dunque uno stretto dovere per ogni sacerdote che voglia rimanere cattolico, separarsi dalla Chiesa conciliare, fino a quando essa non ritroverà la Tradizione del magistero della Chiesa e della fede cattolica» (102).

III - Risposta di fondo

Le ragioni avanzate prima mettono in evidenza la natura del problema: quello della collaborazione con l’attuale gerarchia della Chiesa. Per rispondere alla nostra questione bisogna ricordare che la Chiesa è una società e che una società si definisce per il fine che essa persegue. La Chiesa è la società istituita da Nostro Signore Gesù Cristo in vista della salvezza delle anime; in altre parole, allo scopo di stabilire il regno di Nostro Signore sulle intelligenze, i cuori e le istituzioni.
Ora, è veramente questo che perseguono gli uomini di Chiesa da dopo il Concilio?

Per rispondere a questa domanda ci sembra indispensabile interrogare il Concilio stesso sullo scopo che assegna alla Chiesa (l’unione del genere umano nel pluralismo); ed è importante sottolineare che questo scopo è nella lettera del Concilio, il quale è la bussola degli uomini di Chiesa. In seguito ci sarà facile capire se possiamo avallare questo scopo e collaborarvi. Infine, noi vedremo come la Roma attuale vuole imporcelo.

1) Ecclesiologia conciliare – il pluralismo

Il Concilio ha dato una nuova definizione della Chiesa, che sarebbe «il sacramento […] dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (103).
La Chiesa cattolica non si identificherebbe più, puramente e semplicemente, con la Chiesa di Cristo: «Questa Chiesa, - dice il Concilio - in questo mondo costituita e organizzata come società, sussiste [subsistit in] nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, appartenendo propriamente per dono di Dio alla Chiesa di Cristo (104), spingono verso l’unità cattolica.» (105). In altre parole, la Chiesa di Cristo è più vasta della Chiesa cattolica; quest’ultima ha la totalità dei mezzi di salvezza, ma altre «Chiese» separate ne hanno anche (106). Queste ultime sono unite alla Chiesa cattolica, ma non pienamente (107).
Quanto alle regioni non cristiane, il seguito del testo afferma, in maniera più o meno velata, che esse sono portatrici di salvezza (108). Da qui la nozione nuova e falsa di «piena comunione» e di «comunione imperfetta». Il decreto sull’ecumenismo è ancora più chiaro: «Lo Spirito di Cristo infatti non ricusa di servirsi di esse  [delle comunità separate] come di strumenti di salvezza» (109).

Se dunque tutte le religioni sono dei mezzi di salvezza, cos’è che ricerca la Chiesa cattolica da dopo il Concilio? «[che] tutti gli uomini, oggi più strettamente congiunti dai vari vincoli sociali, tecnici e culturali, possano anche conseguire la piena unità in Cristo» (110).
In breve, essa deve realizzare l’unità del genere umano «rendendolo cosciente, con l’unificazione grazie alla scienza e al progresso, dell’unità che l’Incarnazione avrebbe già realizzato ontologicamente (con la salvezza garantita a tutti). Dunque, non si tratta più di convertire le anime, ma di prendere coscienza – per mezzo del “dialogo” – del fatto che la salvezza è già realizzata (implicitamente) e che l’unità che si è prodotta in Cristo deve sovrapporsi a quella prodotta dallo sviluppo profano (111), portandola al suo compimento in questa nuova unità del genere umano» (112).
Annunciando la scandalosa riunione interreligiosa di Assisi, Giovanni Paolo II diceva: «L’impegno ecumenico mira precisamente a questo scopo: realizzare la Chiesa come sacramento di un’unità sinfonica di molteplici forme di un’unica pienezza, a somiglianza dell’unità trinitaria, fonte e base di ogni unità» (113).
Questo linguaggio seduce per il lusso delle immagini, ma come si può parlare di «sinfonia» laddove si sente solo una «cacofonia» di proposte contraddittorie?

Il principio soggiacente a questa nuova concezione della Chiesa è il pluralismo, secondo il quale potrebbero coesistere pacificamente delle dottrine contraddittorie, tutte ridotte al rango di opinioni. Nessuno avrebbe la verità, ma ciascuno ne avrebbe dei frammenti. Questo principio è espresso attraverso questa formula abbagliante: «L’unità nella diversità». Piuttosto si dovrebbe parlare di «unione scomposta delle contraddizioni».

2) Giudizio cattolico sul pluralismo

Il pluralismo mette sullo stesso piano la verità e l’errore. Ora, non c’è niente di più ingiurioso per la verità di questo trattamento. Già Pio VII, deplorando la Costituzione francese del 1815, diceva: «Il nostro dolore aumenta alla lettura dell’articolo 22 che, non solo permette la libertà dei culti e delle coscienze, ma promette protezione a questa libertà e ai ministri dei diversi culti. Non c’è bisogno di dimostrarvi quale ferita mortale arreca questo articolo alla religione cattolica in Francia. Poiché quando si afferma la libertà di tutti i culti senza distinzione, si confonde la verità con l’errore e si mettono allo stesso livello le sette eretiche e la perfidia giudaica con la sposa immacolata di Cristo: la Chiesa, al di fuori della quale non c’è salvezza.» (114).

Nello stesso senso, il cardinale Pie diceva: «Condannare la verità alla tolleranza significa costringerla al suicidio. L’affermazione si uccide se dubita di se stessa; ed essa dubita di se stessa se lascia indifferentemente che la negazione le si ponga a fianco. Per la verità, l’intolleranza è la cura per la conservazione, è il legittimo esercizio del diritto di proprietà. Quando si possiede, ci si deve difendere, pena l’essere ben presto interamente spogliato. […] E’ la condizione di ogni verità l’essere intollerante; e la verità religiosa, essendo la più assoluta e la più importante di tutte le verità, è di conseguenza anche la più intollerante. […] Gesù Cristo ha inviato i Suoi Apostoli a predicare a tutte le nazioni, e cioè a rovesciare tutte le religioni esistenti per stabilire l’unica religione cristiana su tutta la terra, e sostituire l’unità del dogma cattolico a tutte le credenze ricevute dai diversi popoli. E prevedendo i movimenti e le divisioni che questa dottrina avrebbe esercitato sulla terra, non s’è fermato ed ha dichiarato che era venuto a portare non la pace ma la spada, ad accendere la guerra non solo tra i popoli, ma all’interno di una stessa famiglia, e separare, a certe condizioni almeno, la sposa credente dallo sposo incredulo, il genero cristiano dal suocero idolatra. La cosa è vera e il filosofo ha ragione: Gesù Cristo non ha affatto sottilizzato sul dogma.» (115).

Quanto all’origine del pluralismo, la massoneria ne rivendica la paternità. «I cristiani – dice Marsaudon – non dovrebbero dimenticare tuttavia che ogni cammino conduce a Dio […] e mantenersi coraggiosamente in questa nozione di libertà di pensiero - per la quale si può veramente parlare di rivoluzione -, partita dalle nostre logge massoniche e che si è estesa magnificamente al di sopra della cupola di San Pietro» (116).

Che i nemici del regno di Nostro Signore professano il pluralismo, non solo lo deploriamo, ma lo denunciamo. Da cui la domanda: avremmo il diritto di lasciar credere che siamo d’accordo col pluralismo? Il problema posto è quello della confessione di fede.

3) La confessione di fede

La confessione di fede è l’atto esteriore di questa virtù: con delle parole o con dei gesti, noi significhiamo esteriormente ciò che crediamo interiormente.
Ora, questa professione esteriore è un dovere. «Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia – dice San Paolo - e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza.» (117). Questo dovere è un precetto positivo (118), che quindi obbliga solo a seconda delle circostanze.
«Perciò non è necessario alla salvezza confessare la fede sempre e in qualsiasi luogo: – dice San Tommaso –  ma in luoghi e tempi determinati, cioè quando omettere tale confessione comprometterebbe l’onore dovuto a Dio, o l’utilità del prossimo. Quando uno, per esempio, interrogato sulla sua fede tacesse, così da far credere di non averla, o che non è vera, oppure col pericolo di distogliere altri dalla fede col suo silenzio. In codesti casi, infatti, la confessione della fede è necessaria alla salvezza.» (119).
In questi casi, non professare la fede equivale a negarla.
Il dottore angelico precisa che quando la fede è in pericolo, «chiunque è tenuto a manifestarla agli altri, sia per istruire e confermare i fedeli, sia per frenare l'impertinenza degli increduli
Infine, se si spera in una qualche utilità, non bisogna temere il turbamento che questa confessione causerà agli infedeli.

Il Codice di Diritto Canonico (del 1917, beninteso) riprende questo dovere di diritto divino per farne una legge ecclesiastica: «I fedeli sono tenuti a professare apertamente la loro fede in tutte le circostanze in cui il loro silenzio, la loro esitazione o la loro attitudine significherebbe una negazione implicita della loro fede, un disprezzo per la religione, un’ingiuria a Dio o uno scandalo per il prossimo» (120).

In conclusione, ci è impossibile accettare il principio del pluralismo: ammetterlo significherebbe negare la nostra fede. Lasciare intendere pubblicamente che noi l’accettiamo significa peccare contro la confessione di fede; significa rinunciare alla regalità di Nostro Signore, che esclude le false religioni; significa ammettere la nuova ecclesiologia conciliare; infine significa fare il giuoco della massoneria.

Ma, in fin dei conti, il fatto che Roma professi questo pluralismo, non ci obbliga ad aderire a tale principio. E’ come la Repubblica francese che tollera tutti i culti: chiedere al sindaco il permesso di fare una processione, non significa aderire al pluralismo repubblicano.
Da qui la domanda: Roma cerca di imporci il suo pluralismo?

4) Le intenzioni romane dal 1988 al 2016

L’11 giugno 1988, a Flavigny, Mons. Lefebvre diceva: «Le loro intenzioni non sono cambiate, perché non sono cambiati i loro princípi». Egli aveva dovuto constatare che le autorità romane avevano mantenuto la loro intenzione di ricondurci al Concilio. Cosa peraltro logica: si agisce in base ai propri princípi.

Quasi trent’anni più tardi, i princípi sono sempre gli stessi, in particolare quello del pluralismo. Possiamo affermare, sulla base dei fatti, che Roma, in tutti questi anni e perfino fino ad oggi, non abbia cessato di agire con la Tradizione secondo questi princípi?
E quello che dobbiamo considerare adesso.

a) Giovanni Paolo II e la Commissione Ecclesia Dei

Già prima delle consacrazioni, Giovanni Paolo II aveva cercato di ottenere un minimum di adesione al Concilio (121). Ma il caso della Commissione Ecclesia Dei è particolarmente interessante, perché nel Motu proprio con lo stesso nome, il Papa spiega in maniera molto chiara qual è – per lui – il posto della Tradizione nella Chiesa conciliare.

a1- Definizione della Tradizione

Il Papa comincia col condannare l’atto di Mons. Lefebvre di consacrazione di quattro vescovi; ma precisa subito che non si tratta semplicemente di un problema disciplinare, di una disobbedienza: «La radice di questo atto» è una questione dottrinale e cioè la nozione di Tradizione.

Nell’insegnamento cattolico, la Tradizione è una delle due fonti della Rivelazione, la quale si è conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo. La Rivelazione è conclusa significa che non può accrescersi. La Tradizione, come indica il nome stesso, è la semplice trasmissione del deposito rivelato.

Giovanni Paolo II condanna questa concezione, che «non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione» «che - come ha insegnato chiaramente il Concilio Vaticano II - trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza  dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro, sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità» (122).
Così, secondo il Concilio, la Tradizione sarebbe vivente, cioè cresce, e di conseguenza il Vaticano II ne farebbe parte. Per il Papa, l’errore di Mons. Lefebvre è di aver fermato la Tradizione al 1962, e questa sarebbe la radice del problema. In effetti, il nodo del problema è il Vaticano II, che è in contraddizione con la Tradizione cattolica. I due non possono coabitare pacificamente.

Subito dopo, Giovanni Paolo II afferma: «la ricchezza che rappresenta per la Chiesa la diversità dei carismi e delle tradizioni di spiritualità e di apostolato, che costituisce la bellezza dell’unità nella varietà: tale è la “sinfonia” (123) che, sotto l’azione dello Spirito Santo, la Chiesa terrena fa salire verso il cielo» (n° 5).
In questo modo, la Tradizione cattolica non sarebbe altro che un «carisma» e una «tradizione di spiritualità» tra le altre. E’ questo il principio del pluralismo.

Ora, il vero posto della Tradizione cattolica è il trono della regina che trionfa sui suoi nemici, e non una nicchia nel pantheon delle religioni, alla pari con i falsi dei, compresi gli errori conciliari. Ebbene, è proprio quest’ultimo posto che gli viene assegnato col Motu proprio Ecclesia Dei.

a2 – La strategia Ecclesia Dei

Dopo la dottrina, il Papa passa alle conclusioni pratiche: lancia un appello «a tutti coloro che finora sono stati in diversi modi legati al movimento dell’Arcivescovo Lefebvre, affinché compiano il grave dovere […] di non continuare a sostenere in alcun modo quel movimento.» E minaccia di fulminare con la scomunica coloro che vi aderiscono formalmente (124).
Poi, chiede ai vescovi di applicare in maniera larga l’indulto del 1984, nei confronti di questi fedeli (125) e di prendere «misure necessarie per garantire il rispetto delle loro giuste aspirazioni.». Infine, stabilisce una commissione per applicare questo Motu proprio.

Entrare nel sistema Ecclesia Dei significa quindi rigettare ipso facto il concetto cattolico e «tradizionale» di Tradizione. E questo malgrado tutte le dichiarazioni posteriori in senso contrario. Infatti, Dom Gérard, nell’agosto 1988, aveva affermato che aveva preteso ed ottenuto «che nessuna contropartita dottrinale o liturgica sia imposta a noi» (126). Interpellato su questo punto, il cardinale Mayer ribatteva: «L’affermazione di Dom Gérard non è esatta. Basta ricordare che l’accordo è stato negoziato sulla base del protocollo del 5 maggio 1988, che esigeva l’accettazione della dottrina contenuta nella Costituzione dogmatica Lumengentium (n° 25)» [E il cardinale ricorda poi gli altri punti]. Non si possono accettare unicamente le concessioni offerte dal protocollo e dimenticare gli obblighi! Così come nel Motu proprio Ecclesia Dei del 2 luglio scorso non ci si può limitare a considerare l’apertura alle giuste aspirazioni spirituali e liturgiche e dimenticare la critica implicita del falso concetto di Tradizione [cioè quello che noi difendiamo]» (127).

Accettare questo Motu proprio significa dunque fare una pubblica professione di fede pluralista; passare al nemico.

In questa ottica, si capiscono meglio certe affermazioni forti di Mons. Lefebvre relative a coloro che si sono accordati con Roma. Oggi, che si ha paura di dispiacere costoro o di ferirli,  è il caso di rileggere di nuovo le sue parole:
«Tutto quello che è stato loro accordato è stato fatto allo scopo di fare in modo che quelli che aderiscono o sono legati alla Fraternità se ne allontanino e si sottomettano a Roma» (128).
«Essi ci tradiscono. Danno la mano a quelli che demoliscono la Chiesa. […] Dunque, adesso questi fanno il lavoro del diavolo, loro che hanno lavorato con noi per il regno di Nostro Signore e per la salvezza delle anime» (129).

b) Benedetto XVI

Sotto Giovanni Paolo II, era già il cardinale Ratzinger il responsabile del dossier di Mons. Lefebvre. Una volta divenuto papa, ha proseguito con il principio del pluralismo?
La sua lettera del 10 marzo 2009 ai vescovi della Chiesa cattolica ci aiuterà a rispondere (130). Il Papa vi spiega le ragioni della remissione delle «scomuniche» dei vescovi della Fraternità.

Benedetto XVI comincia col rassicurare i vescovi progressisti: quella misura era puramente disciplinare. Se la Fraternità vuole esercitare un ministero legittimo nella Chiesa, prima di tutto deve accettare «il Vaticano II e il magistero post-conciliare dei papi».

Allora, perché togliere le sanzioni? Era veramente una cosa prioritaria? Sì, risponde il Papa. «Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi», la priorità è rianimarla. «Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - per l’ecumenismo - è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce - è questo il dialogo interreligioso.»

Così, vi è una priorità: rianimare la fede. E i mezzi? L’ecumenismo, il dialogo interreligioso. E la «riconciliazione» con i tradizionalisti fa parte di questo movimento.

Ma perché andare verso questo fratello «che ha qualcosa contro di te» [questo fratello saremmo noi]? Perché bisogna evitare le «radicalizzazioni» e «reintegrare i loro eventuali aderenti», «impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di recuperabile per l’insieme. Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme».

In chiaro, si tratta di un’impresa di recupero della Tradizione a profitto della Rivoluzione conciliare, che si concretizza nell’ecumenismo e nel dialogo interreligioso.
Le misure di clemenza servono per attenuare e fare sparire l’intolleranza della verità; in definitiva, si tratta di entrare nel sistema della Chiesa conciliare in cui, secondo il principio del pluralismo, ognuno rispetta l’opinione dell’altro.

c) Papa Francesco

Inizialmente, sembrava che quest’ultimo avesse solo poco interesse per il nostro dossier. Nondimeno, gli incontri sono continuati e il Papa si è intromesso personalmente, in particolare concedendo ai sacerdoti della Fraternità la facoltà di assolvere validamente e lecitamente durante l’anno della misericordia.

Nell’intervista già citata di Mons. Pozzo, del 25 febbraio con Zenit, si possono rilevare anche i seguenti punti.

c1 – In cammino verso la «piena comunione»

Il prelato incomincia col ricordare che «la Fraternità rimane in una situazione irregolare», non avendo ancora uno statuto canonico. «I membri della Fraternità sono dei cattolici in cammino verso la piena comunione con la Santa Sede». Questa comunione ci sarà quando si arriverà al riconoscimento canonico della Fraternità.

Poi, egli fa il bilancio del cammino già percorso. Constata che i contatti fra la Commissione Ecclesia Dei e la Fraternità «hanno favorito lo sviluppo di un clima di fiducia e di mutuo rispetto, che dev’essere la base di un processo di riavvicinamento».
«Noi adesso ci troviamo ad uno stadio che io credo costruttivo e idoneo ad ottenere la riconciliazione auspicata». In questa prospettiva, i punti di divergenza non devono essere considerati «come dei muri insormontabili, ma come dei punti di discussione che meritano di essere approfonditi».

In questa esposizione, tutto il problema è falso alla base. I problemi dottrinali sollevati dal Concilio sono di una gravità eccezionale: implicitamente, è la divinità di Nostro Signore Gesù Cristo che è in giuoco.
Ora, questi problemi vengono relegati al rango di «punti di discussione»; tale che si tratterebbe solo di una questione di «riconciliazione». Ma ci si riconcilia dopo una disputa, dopo un disaccordo; mentre per noi si tratta di tutt’altra cosa, e certo non di una disputa.

Per il Vaticano II, si tratta di stabilire un clima di fiducia e di mutuo rispetto: e cioè che ciascuno rispetterà le posizioni dell’altro… siamo di nuovo al pluralismo. Addio battaglia per la fede!
Di conseguenza, la «piena comunione» non è  altro che la «fraternità pluralista».

Noi non possiamo accettare un tale linguaggio. Accettare di entrare in tale processo significherebbe ipso facto fare nostra la visione del problema come esposta da Mons. Pozzo, dunque come vista dal Vaticano.
Qui si tocca la confessione di fede; la quale diventa necessaria per la salvezza «quando omettere tale confessione comprometterebbe l’onore dovuto a Dio, o l’utilità del prossimo.» Quando la fede è in pericolo, «chiunque è tenuto a manifestarla agli altri, sia per istruire e confermare i fedeli, sia per frenare l'impertinenza degli increduli» (131).

Ora, entrare in questo processo significa mettere la luce della fede sotto il moggio.

c 2 – Superare gli ostacoli

Questi sono di due ordini: «quello dottrinale» e «quello dell’attitudine mentale e psicologica».

Vediamo prima l’ostacolo dottrinale. Si tratta certamente del Concilio. Per Mons. Pozzo, tutto il problema consisterebbe nella confusione fra il Concilio e il suo spirito: il primo sarebbe buono e il secondo cattivo (132). Dopo egli afferma falsamente che la Fraternità rigetterebbe solo il secondo, ma accetterebbe il primo! Ma, in ogni caso, «anche dopo la riconciliazione» si continuerebbe a discuterne.

Nell’attesa, bisogna cercare una convergenza sui tre punti necessari alla piena comunione: l’integrità del Credo, il vincolo dei sacramenti e l’accettazione del magistero supremo della Chiesa.
Ora, dice Mons. Pozzo, su questi tre punti la Fraternità sarebbe d’accordo (133).
Quanto ai punti di divergenza (l’ecumenismo, la libertà religiosa), si tratterebbe di questioni pastorali e di ordine prudenziale, sulle quali la discussione è legittima.

Vediamo quindi l’ostacolo dell’attitudine mentale e psicologica: si tratta di «passare da una posizione di confronto polemico e antagonista ad una posizione di ascolto e di mutuo rispetto, di stima e di fiducia». Il prelato pensa «che il riavvicinamento intrapreso ha dato dei frutti, in particolare per questo cambiamento di attitudine delle due parti». «Il Santo Padre ha incoraggiato la Pontifica Commissione Ecclesia Dei, fin dall’inizio del suo pontificato, a proseguire con questo metodo».

Niente di sorprendente che questo compito sia devoluto a questa Commissione. Infatti, i sacerdoti che vi aderiscono devono pronunciare questa formula: «Riguardo ad alcuni punti di dottrina insegnati dal concilio Vaticano II o riguardo alle istituzioni posteriori relative alla liturgia e al diritto canonico, e che sembrano ad alcuni difficilmente o affatto conciliabili con le dichiarazioni del magistero precedente, io mi impegno a seguire la linea positiva dello studio e della comunicazione con la Sede Apostolica, evitando ogni nota polemica» (134).
E’ a questa condizione di spirito che oggi Roma vuole condurci.

La procedura è molto abile. Essa dà l’impressione che non ci si chieda più di aderire al Vaticano II, e di fatto non è più richiesto di accettarlo esplicitamente. Tuttavia, facendo cessare il «confronto» e la «polemica», e cioè la battaglia per la fede, si passa ad una attitudine di rispetto (135), e cioè si riconosce come valida l’opinione romana su queste «questioni pastorali»; il che equivale a riconoscere la possibilità di una coabitazione pacifica col Vaticano II.
Ricordiamoci le parole del cardinale Pie: «L’affermazione si uccide se dubita di se stessa; ed essa dubita di se stessa se lascia indifferentemente che la negazione le si ponga a fianco
Cessare la denuncia dell’errore significa ammettere che esso sia accettabile (136); e quindi ammettere implicitamente il Vaticano II.

Notiamo la curiosa rassomiglianza tra questo procedimento in cui si ricerca ciò che ci unisce piuttosto che ciò che ci divide e il procedimento ecumenico; il metodo è identico.

5) Conclusione

E’ impossibile cercare di essere riconosciuti ufficialmente dalla gerarchia della Chiesa cattolica ancora imbevuta di falsi princípi e specialmente del pluralismo (che è consustanziale alla religione conciliare); poiché è impossibile non essere insieme integrato nel sistema che deriva da tali princípi. Accettare tali proposte significa «sottilizzare sul dogma»; significa collaborare alle false opere della gerarchia neo-modernista; significa avallare le sue imprese. Agli occhi di tutti, un riconoscimento canonico significherebbe che noi siamo d’accordo con loro.

E’ quello che aveva capito Mons. Lefebvre nel 1988, quando scriveva a Giovanni Paolo II:
«I colloqui e gli incontri col Cardinale Ratzinger e i suoi collaboratori, benché abbiano avuto luogo in un’atmosfera di cortesia e di carità, ci hanno convinto che il momento di una collaborazione franca ed efficace non sia ancora arrivato. […] Dato il rifiuto di considerare le nostre richieste, ed essendo evidente che lo scopo di questa riconciliazione non è lo stesso per la Santa Sede e per noi, crediamo sia preferibile attendere un tempo più propizio per il ritorno di Roma alla Tradizione. […] Noi continueremo a pregare perché la Roma moderna, infestata di modernismo, ridiventi la Roma cattolica e ritrovi la sua bi-millenaria Tradizione. Allora, il problema della riconciliazione non avrà ragione d’essere e la Chiesa ritroverà una nuova giovinezza.» (137).

Più che mai sono d’attualità queste parole del prelato: «Le loro intenzioni non sono cambiate, perché non sono cambiati i loro princípi» (138).
I loro princípi, quelli del pluralismo, sono sempre gli stessi; di conseguenza essi cercano di integrarci nel loro sistema pluralista. Bisogna attendere che questi princípi siano stati rigettati, in altre parole che gli uomini di Chiesa si siano convertiti.

«… non abbiamo mai voluto appartenere a questa struttura che si auto-qualifica Chiesa Conciliare e si definisce col Novus Ordo Missae, l’ecumenismo indifferentista e la laicizzazione della società. Sì, non abbiamo alcunché a che fare, nullam partem habemus, con il pantheon delle religioni di Assisi; la nostra scomunica con un decreto di Vostra Eminenza [cardinale Gantin] o di un altro dicastero, ne sarà solo la prova inconfutabile.
«Noi non chiediamo di meglio che essere dichiarati fuori dalla comunione con lo spirito adulterino che soffia nella Chiesa da venticinque anni; esclusi dalla comunione empia con gli infedeli. Noi crediamo in un solo Dio, Nostro Signore Gesù Cristo col Padre e lo Spirito Santo
[…]
«Essere dunque associati pubblicamente alla sanzione che ha colpito i sei vescovi cattolici, difensori della fede nella sua integrità e integralità, sarà per noi un punto d’onore e un segno di ortodossia di fronte ai fedeli. Questi infatti hanno il preciso diritto di sapere che i sacerdoti ai quali si rivolgono non sono in comunione con una contraffazione della Chiesa, evolutiva, pentecostale e sincretista» (139).

«Chiunque ama la verità, detesta l’errore – dice Ernest Hello – […] questa detestazione dell’errore è la pietra di prova da cui si riconosce l’amore per la verità».

«Un errore e una menzogna che non ci si preoccupa di smascherare, a poco a poco acquisiscono l’autorità del vero – dice Charles Maurras»

«L’errore cui non si resiste, viene approvato. La verità che non viene difesa, viene oppressa» (140).


IV - Risposte alle obiezioni

ALLA PRIMA: IL PAPA CI CHIAMA ALLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Il papa, essendo l’autorità è causa efficiente della società che è la Chiesa. Se egli ci chiama, occorre valutare bene verso quale causa finale egli intende dirigerci.
Cos’è questa «nuova evangelizzazione»? Tale espressione ha lo stesso significato per lui e per noi? Francesco, cerca il regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo? (141).
Se non è così, noi non possiamo rispondere alla sua chiamata; significherebbe avallare il suo programma, lasciando intendere falsamente che noi siamo d’accordo sul significato dell’espressione.
Ora, noi abbiamo visto che, a partire dal Concilio, gli uomini di Chiesa si dirigono verso un fine del tutto opposto a quello fissato da Nostro Signore.

Quanto alle «periferie esistenziali», per il Papa si tratta di rivolgersi ai divorziati risposati, agli omosessuali, ecc., con uno sguardo compiacente sui loro disordini morali.
E questo che significa quest’altra espressione per noi?

ALLA SECONDA: INSIEME AI CONSERVATORI, NOI POTREMMO FARE DA CONTRAPPESO

Più che mai dobbiamo aiutare questi simpatizzanti. Ma il riconoscimento canonico ne è il mezzo più adeguato?
In effetti, ciò di cui essi hanno bisogno è che gli si aprano gli occhi sugli errori del Concilio. Al momento, essi non vedono questi errori. Infatti, secondo loro, la cosa che ci manca è il riconoscimento canonico: e questo significa che non hanno compreso che il problema non è nostro, ma loro.

Da parte nostra, il vero modo per aiutarli è fornire tutte le opere che permettano loro di comprendere la crisi che viviamo, e di pregare perché lo Spirito Santo li illumini.
E’ quello che fecero certi sacerdoti con Mons. Lazo, vescovo emerito di San Fernando de la Union (Filippine). E che magnifica conversione ottennero! Non si trattò solo di segni di simpatia da parte del prelato. Egli divenne confessore della fede. Perché è diventato tradizionalista? Gli si chiedeva; «Ebbene – rispondeva – è perché ho rigettato la nuova Messa!» (142). Ma non vi era solo la Messa, la battaglia per fede era ancora più importante. Nel 1988 egli inviò a Giovanni Paolo II una Dichiarazione di fede in cui denunciava gli errori conciliari: «Io sono per la Roma cattolica – vi scriveva – la Roma dei Santi Pietro e Paolo. […] Io non servo la Roma controllata dai massoni, che sono gli agenti di Lucifero, il principe dei demoni» (143). E lui stesso è divenuto apostolo verso gli altri vescovi, inviando loro dei documenti. «Glieli ho inviati perché penso che è a questo livello di idee che deve condursi la battaglia» (144).

ALLA TERZA: OGNI SITUAZIONE NORMALE CONDUCE ALLA NORMALIZZAZIONE

L’espressione è ambigua. Essa può voler dire che ogni situazione anormale dev’essere resa di nuovo normale. Per esempio, dopo lo scisma d’Oriente la Chiesa ha compiuto ogni sforzo, per secoli, al fine di ricondurre i dissidenti all’ovile.
Tuttavia, il senso ovvio sembra essere che, ineluttabilmente, le cose devono evolvere nella giusta direzione. Ora, la nostra povera natura umana, lasciata a se stessa, può solo rotolare da abisso in abisso, se nessuno viene a soccorrerla. Per riprendere l’esempio degli scismatici: malgrado i numerosi sforzi dei papi, pochissimi di loro sono ritornati alla Chiesa, da mille anni.

Inoltre, l’espressione utilizzata insinua che noi siamo in una situazione anormale. Ma ciò che è affettivamente anormale è il fatto che le autorità romane diffondono il modernismo. Per fare un paragone: quando un padre di famiglia obbliga i suoi figli a rubare, con la minaccia di gravi pene, questi sono tenuti a disobbedirgli e a resistergli; certo, è anormale che i figli resistano al loro padre, ma il disordine primo è proprio quello del padre, e se esso diventa insostenibile e pericoloso per la loro virtù, per loro è prudente che si allontanino da lui. Fintanto che questo disordine perdura, i figli sono obbligati a resistere o a tenersi alla larga. Sarebbe incomprensibile che i figli riprendessero delle normali relazioni con tale padre, nonostante sappiano benissimo che egli continua ad ostinarsi nel vizio.

Nel nostro caso, noi ci teniamo a distanza dalla Roma modernista per le ragioni richiamate prima e per altre che vedremo negli articoli seguenti. Fino a quando queste ragioni persisteranno, noi siamo obbligati a rimanere nella situazione in cui ci troviamo, e che gli obiettanti chiamano «anormale».

ALLA QUARTA: IL BISOGNO URGENTE DI NUOVI VESCOVI

Bisogna distinguere le due questioni: la soluzione canonica e la consacrazione di un vescovo. Ciascuna si risolve con dei princípi suoi propri (145).

Per la prima – la soluzione canonica – abbiamo esposto i princípi nel corso dell’articolo. Per la seconda – la consacrazione di un vescovo – essa si risolve sulla base del principio dello stato di necessità.
Vediamo come ne parlava Mons. Lefebvre poco prima della sua morte.

Nel 1990, avendo saputo che la salute di Mons. de Castro Mayer declinava, Mons. Lefebvre gli inviò una lettera per proporgli la consacrazione di un successore nell’episcopato.
«Perché considerare una tale successione – si chiedeva – al di fuori delle norme canoniche abituali?
«Perché i sacerdoti e i fedeli hanno il preciso diritto a dei pastori che professino la fede cattolica nella sua integrità, essenziale per la salvezza delle loro anime, e a dei sacerdoti che siano dei veri pastori cattolici.
Perché la “Chiesa conciliare”, essendo ormai presente universalmente, diffonde degli errori contrari alla fede cattolica e, in ragione di questi errori, ha corrotto le fonti della grazia, che sono il Santo Sacrificio della Messa e i sacramenti. Questa falsa Chiesa è in rottura sempre più profonda con la Chiesa cattolica.
«Da questi princípi e da questi fatti, deriva l’assoluta necessità di continuare l’episcopato cattolico per continuare la Chiesa cattolica.
[…]
«Ecco la mia opinione, io penso che essa si basi sulle leggi fondamentali del Diritto ecclesiastico e sulla Tradizione» (146).

Si può aggiungere che Mons. Lefebvre, prima del 1988, aveva fatto presso le autorità romane tutti i tentativi in vista delle consacrazioni episcopali per la Fraternità; e ne aveva concluso che «il ricorso a Roma, sempre fisicamente possibile, è reso moralmente impossibile dallo spirito dal quale è penetrato il Santo Padre: “comunione con le false religioni”, “spirito adultero che soffia sulla Chiesa”, “questo spirito non è cattolico” “da vent’anni noi ci sforziamo con pazienza e fermezza di far comprendere alle autorità romane questa necessità del ritorno alla sana dottrina e alla Tradizione per il rinnovamento della Chiesa, la salvezza delle anime e la gloria di Dio. Ma si rimane sordi alle nostre suppliche, e addirittura ci viene chiesto di riconoscere la fondatezza di tutto il Concilio e delle riforme che mandano in rovina la Chiesa”» (147).

Se dunque si fa sentire la necessità di consacrazioni episcopali, basta riprendere questi princípi ed applicarli: i fedeli hanno sempre diritto alla vera dottrina e ai veri sacramenti; la Chiesa conciliare è sempre in rottura – ed anche più che nel 1990 – con la Chiesa cattolica; infine, la Santa Sede non sembra che abbia rimesso in questione la fondatezza del Concilio e non sopporta che la si attacchi su questa questione. Da tutto questo si può vedere facilmente «se è possibile consacrare dei vescovi col permesso di Roma». Quanto a sapere quando bisogna consacrare, questo deriva dalla «prudenza regale», quella del capo. Sta a lui applicare i princípi alla realtà del momento.

ALLA QUINTA: QUESTO NON È ECUMENISMO

Certo, le relazioni fra la Santa Sede e i fedeli della Tradizione non sono ecumenismo. Infatti, l’ecumenismo è la ricerca di una certa unione tra cristiani (cattolici e non cattolici) senza conversione. Qui, i due soggetti di queste relazioni sono cattolici, quindi non c’è ecumenismo.
Tuttavia, il principio che è alla base dell’ecumenismo è il pluralismo: infatti, nelle relazioni ecumeniche, ciascuno rispetta le convinzioni dell’altro, ammettendole come valide.
Ora, questo è lo stesso principio che la Santa Sede vuole imporci nelle relazioni con noi. Dunque, non basta dire che il fatto che il Papa ci viene incontro non è ecumenismo – questo è vero -, bisogna valutare che questo egli non lo faccia in un’ottica pluralista; cosa che come abbiamo visto non è così.

ALLA SESTA: IL SANO TRAMBUSTO CHE CAUSEREBBE IL NOSTRO RICONOSCIMENTO ALL’INTERNO DELLA CHIESA

Tutto ciò che è di tendenza tradizionale incontra simpatizzanti e oppositori (più o meno virulenti). Per esempio, in occasione dell’erezione dell’Istituto del buon Pastore, certi manifestarono il loro dissenso , dicendo «questa gente avrebbero rimanere fuori»; certi altri manifestarono il loro sostegno, vedendo nella vicenda un passo verso la «riconciliazione». Anche i Francescani dell’Immacolata sono stati apprezzati da molti, odiati da altri.
Ora, questo non è sufficiente per dire che l’IBP aveva ragione e che la posizione dottrinale dei Francescani è ineccepibile. Non è dalla reazione degli altri che si deve giudicare un atto, ma dalla sua natura intima. Già in questo articolo abbiamo cominciato ad esaminare la natura morale di un riconoscimento canonico da parte delle autorità neomoderniste; e questo è sufficiente per dimostrare la sua fondatezza.

ALLA SETTIMA: I NOSTRI NEMICI SI OPPONGONO A QUESTO RICONOSCIMENTO

La ragione appena esposta basta a rispondere alla presente obiezione. Aggiungiamo semplicemente che non basta che un effetto sia buono per giustificare l’atto che lo ha prodotto; in altre parole: il fine non giustifica i mezzi. Non è permesso rubare dei soldi per costruire una chiesa; e anche qui, l’effetto buono (peraltro alquanto limitato) deriverebbe da un mezzo malvagio: l’aggregazione al pluralismo conciliare.

ALL’OTTAVA: SAN PIO X HA DATO L’ESEMPIO DELL’UNIONE CON I LIBERALI

Certo, egli aveva fatto un’unione con i liberali per cacciare i massoni; ma, come dice il Padre Dal Gal: «osserviamo d’altronde che in questa alleanza tra cattolici e liberali moderati, non erano questi ultimi che avevano elaborato il programma di azione comune da svolgere durante e dopo le elezioni. Non furono i cattolici ad attenuare i loro princípi per aderire ai moderati, ma i moderati che aderirono al piano dei cattolici (148).
Ora, nel nostro caso, sono esattamente i neo-modernisti che intendono imporci i loro princípi.

Notiamo che nel caso della separazione fra la Chiesa e lo Stato, San Pio X ha resistito al governo francese che voleva imporre le associazioni di culto, che avrebbero condotto la Chiesa di Francia allo scisma. La sua fermezza ha fatto indietreggiare i settari. E’ dunque falso dire che il pontificato di San Pio X si iscriverebbe in una logica ineluttabile di riavvicinamento e di pacificazione. Questo significa leggere gli avvenimenti alla luce del «senso della storia».

Inoltre, l’isolamento non è un male in sé: Dio l’aveva perfino prescritto al popolo di Israele. Se Mons. Lefebvre ha preso le distanze, è stato per preservare i suoi sacerdoti dalle influenze moderniste. Non si capisce bene perché, per il solo fatto che siano passati trent’anni, bisognerebbe necessariamente passare per una soluzione canonica per reintrodurre a Roma i princípi della Tradizione.

ALLA NONA: MONS. LEFEBVRE HA SEMPRE CERCATO UNA SOLUZIONE CANONICA.

Cominciamo col precisare che Mons. Lefebvre ha cercato per lungo tempo una soluzione canonica; ma è assolutamente chiaro – l’abbiamo ricordato all’inizio della risposta di fondo – che da dopo le consacrazioni e fino alla sua morte Mons. Lefebvre non ha più cercato alcuna soluzione canonica (149).

Ma è utile dire perché Mons. Lefebvre avesse cercato all’inizio una soluzione sul piano canonico. Egli ha sperato e creduto per lungo tempo che le autorità romane fossero in grado di voler sinceramente il bene della Tradizione. «Io ho sperato fino all’ultimo minuto che a Roma si testimoniasse un po’ di lealtà» (150).
Questa volontà di favorire la Tradizione era innegabilmente quella di Mons. Charrier, quando approvò la costituzione della Fraternità; ma più tardi, Mons. Lefebvre dovette rendersi conto che non era affatto quella delle autorità romane: «Essi vogliono averci direttamente sotto il loro controllo, per poterci imporre giustamente quella politica anti-tradizionale di cui sono imbevuti. […] io mi sono accorto di questa volontà di Roma di volerci imporre le loro idee e i loro modi di vedere» (151). «Rapidamente, noi ci siamo accorti che avevamo a che fare con persone che non sono oneste […] Noi desideravamo il riconoscimento [la volontà di aiutare la Tradizione], Roma voleva la riconciliazione [che ciascuno facesse delle concessioni] e che noi riconoscessimo i loro errori» (152).
Lo stesso cardinale Gagnon diceva, su Avvenire del 17 giugno 1968: «Da parte nostra, noi abbiamo sempre parlato di riconciliazione, Mons. Lefebvre invece di riconoscimento. La differenza non è poca. La riconciliazione presuppone che le due parti compiano uno sforzo, che si riconoscano gli errori passati. Mons. Lefebvre intende solo che si dichiari che è lui che ha sempre avuto ragione, e questo è impossibile» (153). «La volontà di Roma di non aiutare la Tradizione – dice ancora Mons. Lefebvre – di non darle fiducia, era evidente» (154). Alla fine, egli scrisse a Giovanni Paolo II: «che il momento della collaborazione franca ed efficace non era ancora arrivato», perché «lo scopo di questa riconciliazione non è affatto lo stesso per la Santa Sede e per noi» (155).

Così, per Mons. Lefebvre non si trattava di entrare nel sistema pluralista: «Per loro, tutto questo [la dottrina cattolica] evolve, ed è evoluto col Vaticano II. Ecco perché non possiamo legarci a Roma» (156). «Non c’è da stupirsi che noi non arriviamo ad intenderci con Roma. Questo non sarà possibile fino a quando Roma non ritornerà alla fede nel regno sociale di Nostro Signore Gesù Cristo, fino a quando continuerà a dare ad intendere che tutte le religioni sono buone» (157).

ALLA DECIMA: LA LIBERTÀ DEI PRELATI CONSERVATORI È LA GARANZIA DELLA NOSTRA

Come abbiamo visto, nessuno dei prelati conservatori mette in discussione il Concilio e i suoi princípi. E’ solo a condizione che anche noi si ammetta, in un modo o in un altro, questi princípi che Roma potrà tollerare delle critiche da parte nostra. E questo, evidentemente, è inaccettabile.


(segue)


NOTE

78 – La procedura critica è un giudizio espresso sul valore della nostra conoscenza. Così, dopo aver visto che è impossibile fare un accordo con la Roma neo-modernista, ci porremo la domanda: è una certezza? Un principio? O una semplice questione prudenziale?
79 – Come sinonimi, il dizionario indica: aggiustamento, accomodamento, compromesso, transazione.
80 – E’ a ragion veduta che diciamo “noi”, per indicare insieme la Fraternità e le comunità amiche: innanzi tutto perché formiamo una stessa famiglia, quella della Tradizione; e poi perché non vogliamo dare l’impressione – erronea – che noi non solidarizziamo a priori su ogni relazione della Fraternità con Roma.
81 – Poiché la soppressione della Fraternità nel 1975 non ha valore e l’erezione delle comunità amiche basa la sua legittimità dallo stato di necessità (in questi casi si applica la supplenza di giurisdizione).
82 – In generale, è innanzi tutto l’Ordinario del luogo che approva una congregazione, ma è sempre preventivamente richiesto l’assenso della Santa Sede (canone 492, § 1).
83 – Sono pubblici solo i voti emessi in un istituto eretto canonicamente e nelle mani del superiore legittimo.
84 – Vale a dire che la dipendenza di questo istituto dal vescovo è più stretta di quella che esiste tra quest’ultimo e i semplici fedeli.
85 – Decreto Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa.
86 Codice di Diritto Canonico, ed. Wilson & Lafleur Limited, Montreal, 1990, p. 195.
87 – Codice del 1983, Canone 294.
88 - Codice del 1983, Canone 297.
89 – Una prelatura personale, normalmente è eretta con un Motu proprio, e cioè con un documento emesso dal Papa «di sua sola volontà», è dunque un atto unilaterale.
90 - Mons. Rifan, nel 2002, diceva: «Il papa ci ha offerto il riconoscimento del nostro vescovo con la promessa di un successore; bastava che noi uscissimo dalla situazione irregolare in cui ci trovavamo. Noi accettiamo e, in coscienza, non possiamo rifiutare questa offerta» (Le Sel de la terre n° 43, p. 207).
91 – Nel 1988, il Monastero di Santa Cruz emise una dichiarazione con la quale rifiutava l’accordo stabilito fra la Santa Sede e Dom Gérard: «Il nostro monastero di Santa Cruz è stato incluso nei termini dell’accordo che noi qui rifiutiamo, senza che noi fossimo consultati a proposito» (Bollettino de Santa Cruz n° 49, pp. 5-6). All’epoca, Mons. Lefebvre approvò pienamente questa condotta.
92 – La giurisdizione è sia ordinaria sia delegata. E’ ordinaria quando è legata ad un ufficio (per esempio il parroco che ha giurisdizione in ragione del suo ufficio); è delegata quando viene data ad una persona. Qui, essa è concessa a delle persone (i sacerdoti della Fraternità), qualunque sia il loro ufficio.
93 – Come dice San Tommaso (II II, q. 1, a. 3): i movimenti sono specificati dal loro termine e ricevono da esso il loro nome. Per esempio, la pentola che scalda sul fuoco subisce un riscaldamento e tende verso lo stato di calore, passando per varie tappe. Qui dunque, il termine è lo statuto canonico. Il movimento che porta ad esso è la regolarizzazione canonica. Di conseguenza, il movimento in cui ci troviamo è una regolarizzazione canonica in corso.
94 – Il termine «transustanziazione» (per indicare il mistero della Messa) distingue i cattolici dai protestanti, il termine «consustanziale» (a proposito della divinità di Nostro Signore) distingue i cattolici dagli ariani. Non è permesso abbandonare questi termini precisi per sostituirli con altri più indistinti.
95 – Don Joseph Lémann, La religion de combat, Paris, 1891, pp. 452-455. Si veda anche Padre Henry Ramières, Le règne social du Coeur de Jèsus, Toulouse, 1892, pp. 73, 81-82, 86-87.
96Ibid., p. 456.
97Le Sel de la terre n° 88, p. 185.
98 – Padre Jérôme Dal Gal, Pio X, ed. Saint Paul, Paris, 1953, p. 198.
99 – Le citazioni che seguono possono apparire un po’ forti. Si dirà naturalmente che esse sono estrapolate dal loro contesto e che, dunque, non bisogna prenderle in senso assoluto. Una volta per tutte, noi rinviamo il lettore al testo annesso, in cui ci siamo sforzati di ricollocare queste citazioni nel loro contesto.
100Le Sel de la terre n° 31, p. 194.
101Fideliter n° 68, p. 16.
102 - Mons. Marcel Lefebvre, Itinerario spirituale, Albano Laziale, ed. Ichthys, 2000, pp. 33-34.
103 – Costituzione Lumen gentium [LG], n° 1.
104 – E non la Chiesa cattolica [NDR]
105 – LG n° 8.
106 – Si tratta in ogni caso dell’interpretazione autentica data dalla Santa Sede il 29 giugno 2007, testo nella Documentation Chatolique 2385, pp. 717-720.
107 - LG n° 15.
108 - LG n° 16.
109 – Decreto Unitatis redintegratio n° 3. Per la confutazione di questi errori si vedano gli Atti del III Congresso teologico di SI SI NO NO, La tentazione dell’ecumenismo, pubblicati dal Courrier de Rome, Versailles, 1999, in particolare le pp. 48 e ss.
110 – LG n° 1.
111 – Cioè nella società civile (NDR).
112La tentazione dell’ecumenismo, ibid., pp- 138-130. Intervento del prof. Pasqualucci.
113 – Citato in Fideliter n° 50, p. 3.
114 – Citato da Mons. Delassus, La congiura anticristiana, ed. effedieffe, 2016, cap. 16.
115 - Cardinale Pie, OEuvres sacerdotales, Oudin, Paris, 1891, tomo I, pp. 359-361.
116 – Yves Marsaudon, L’Œecuménisme vu par un Franc-Maçon de Tradition, ed. Vitiano, Paris, 1964. Mons. Lefebvre non ha mancato di segnalare quest’opera ai padri conciliari, per metterli in guardia. Si veda Accuso il Concilio, ed. Il Borghese, 1977, p. 129.
[Il barone Yves Marie Antoine Marsaudon (1899-1985) è appartenuto alla massoneria e contemporaneamente all’Ordine di Malta, è stato già a suo tempo propugnatore dell’ecumenismo; si veda l’articolo di Padre Paolo M. Siano, FI (ll barone Yves Marsaudon: un massone nell’Ordine di Malta), pubblicato il 22 febbraio 2017 su Corrispondenza Romana https://www.corrispondenzaromana.it/il-barone-yves-marsaudon-
un-massone-nellordine-di-malta/]
117Rm 10, 10.
118 – Per opposizione ai precetti negativi: «non rubare, ecc.» che obbligano in ogni tempo e in tutte le circostanze.
119 – II II q. 3, a. 2 «Tacere quando si può rispondere, dice San Bernardo, significa acconsentire; e noi sappiamo che uno stesso castigo attende quelli che fanno il male e quelli che ne sono complici col consenso (Sermone per la natività di San Giovanni Battista, n° 9; P. L. CLXXXIII, col. 402).
120 – Canone 1325.
121 – Abbiamo fornito tutti i particolari nell’allegato.
122 – Costituzione Dei verbum n° 8 – Motu proprio Ecclesia Dei n° 4.
123 – Il Papa utilizza lo stesso termine a proposito dell’ecumenismo; come abbiamo visto prima.
124 – Il decreto che ha comminato la «scomunica» a Mons. Lefebvre dice nello stesso senso: «Avvertiamo i preti e i fedeli di non aderire allo scisma di Mons. Lefèbvre, poiché incorrerebbero ipso facto nella gravissima pena della scomunica.» (http://www.unavox.it/Documenti/doc0191_FSPX_Scomunica.htm)
Se le parole hanno un senso, questo vuol dire che la scomunica colpisce tutti coloro che sostengono le consacrazioni del 1988; essi sono cacciati… dalla Chiesa conciliare.
125 – Questo indulto, nella stessa logica, precisava: «Con ogni chiarezza deve constare anche pubblicamente che questi sacerdoti ed i rispettivi fedeli in nessun modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l’esattezza dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970» E la loro posizione sia senza ambiguità e conosciuta da tutti. Il che significa che bisogna riconoscere il principio del pluralismo.
126Fideliter n° 65, p. 18.
127 - Fideliter n° 67, p. 17.
128 - Fideliter n° 79, p. 5.
129Ibid., p. 6.
130 Documentation catholique 2421, pp. 318-321.
131 – II II, q. 3, a. 2, corpus e ad 2. Si veda anche il Canone 1325 del Codice di Diritto Canonico del 1917.
132 – Questa distinzione è menzognera. Paolo VI, a più riprese, si è appellato allo spirito del Concilio per le sue riforme. Lui stesso ha dedicato certe catechesi del mercoledì ad approfondire «lo spirito del Concilio»; si vedano per esempio le sue udienze nella Documentation catholique 1545, pp. 702, 703, 705, ecc. Questo spirito è quindi indissolubile dalla lettera del Concilio.
133 – Sul Credo, sì. (anche se: le parole hanno lo stesso senso per loro e per noi? C’è da dubitarne. Cosa intendono, per esempio, per redenzione? Si veda Le Chardonnet, maggio 2016, pp. 3-5). Di contro, noi non ammettiamo la riforma liturgica che tocca tutti i sacramenti, e soprattutto la Messa; noi persistiamo nell’affermare che il Novus Ordo Missae, quantunque valido, è malvagio. Quanto al «magistero supremo della Chiesa», l’espressione è ambigua; noi rigettiamo il magistero post-conciliare. Abbiamo trattato questa questione più ampiamente nella questione 1, articolo 4.
134 – Citato ne Le combat de la foi n° 176, p. 13.
135 – Certo che noi rispettiamo le persone, ma qui il termine «rispetto» è messo in opposizione al «confronto polemico»: si tratta quindi di cessare gli attacchi contro gli errori professati dagli uomini di Chiesa, Papa compreso.
136 – Secondo logica, il termine «inaccettabile» ha per contraddittore «accettabile», mentre il suo termine contrario è: «dev’essere accettato». Ora, l’opposizione più radicale è la prima (la contraddizione). Ammettere che il Vaticano II sia accettabile significa distruggere radicalmente tutta la nostra battaglia.
137 – Lettera di Mons. Marcel Lefebvre a S. S. Giovanni Paolo II, 2 giugno 1988
http://www.unavox.it/Documenti/Doc0396_Lettera_Mons-Lefebvre_
a_Giovanni_Paolo_II_2.6.1988.html
138 – Conferenza a Flavigny, 11 giugno 1988.
139 – Lettera aperta dei Superiori della Fraternità Sacerdotale San Pio X al cardinale Gantin, Prefetto della Congregazione per i Vescovi, 6 luglio 1988
http://www.unavox.it/Documenti/Doc1003_Lettera_dei_Superiori_della_FSSPX_
al_card_Gantin_6.luglio.1988.html
140 – Queste tre citazioni sono tratte dall’opuscolo di Arnaud Delassus, Promemoria sul concilio Vaticano II, AFS, supplemento al n° 221, giugno 2012, p. 32 – [l’ultima citazione è di Papa Felice III, citato da Leone XIII].
141 – Nella questione 1, abbiamo visto che è: no.
142 Le Sel de la terre n° 21, p. 163.
143 - Le Sel de la terre n° 26, p. 166 (il testo intero nelle pp. 162-167).
144 - Le Sel de la terre n° 21, p. 167. Si veda la sua autobiografia in Le Sel de la terre n° 34, pp. 89-112.
145 – Notiamo che nel 1987-1988, la concorrenza di questi due problemi ha complicato la questione. Tutto fu più chiaro nel 1991, per la consacrazione di Mons. Rangel, quand’era in ballo solo la questione della consacrazione.
146 – Lettera di Mons. Lefebvre a Mons. de Castro Mayer, 4 dicembre 1990.
http://www.unavox.it/Documenti/Doc1087_Lettera_Mons-Lefebvre_a_Mons-
de-Castro-Mayer_4.12.1990.html
147 – Citato in Mons. Tissier de Mallerais, Mons. Marcel Lefebvre. Una vita, ed. Tabula Fati, Chieti, 2005, p. 612.
148 – Dal Gal, op. cit., p. 201.
149 – Per maggiori documenti, rinviamo all’allegato.
150Fideliter n° 79, p. 11.
151 - Fideliter n° 66, pp. 28-30.
152 - Fideliter n° 70.
153 – Citato ne La Tradition excommuniée, pubblicazione del Courrier de Rome, Versailles, 1989, pp. 40-41.
154 - Fideliter n° 68, p. 9; vedere p. 4 e 7.
155Le Sel de la terre n° 25, p. 153.
156Fideliter n° 66, p. 30.
157 - L’Église infiltrée par le modernisme, p. 71.





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ottobre 2017

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